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Capitolo I, pag. 9

Capitolo XV, pag. 176

Capitolo XVI, pag. 184

“Sequebantur furore ex oculis lucente barbari nostros…
I barbari, gli occhi foschi di furore, si avventavano sui nostri…
…nec enim saepe renitentibus cedebatur, aut parcebat
…nessuna tregua per chi resisteva, misericordia
cedentibus quisquam.”
per chi si arrendesse.

AMMIANO MARCELLINO, “Historiae”, XXXI, 12-13.

Non lontano dal Mar Nero, una battaglia terribile ed epocale s’è compiuta…

CAPITOLO I

Provincia di Haemimontus, Diocesi di Thracia
Piana di Hadrianopolis
9 Agosto 378 a.D.


I tuoni galoppavano fra grevi nuvole grigie e le grida dei feriti sembravano invocare la pioggia, affinché scendesse a lavare tutto quel sangue.
L’aria immota scuriva, al calar della sera, e la pioggia - sorda e avara - seguiva i tuoni a oriente, verso il Pontus Euxinus, non lasciando neppure una goccia a bagnare la piana della città d’Adriano; né agosto prometteva frescura, nemmeno con le prime ombre, gravando ogni cosa di un umore color del metallo.
Chi aveva creduto in un Dio lo bestemmiava, e chi non aveva Dei cui imprecare malediceva chi l’aveva partorito. Alcuni cavalieri vagavano, isolati, stringendo con forza fra le ginocchia la groppa del cavallo che incespicava fra i corpi a terra, troppo numerosi per lasciar spazio agli zoccoli: con vago interesse, scrutavano al suolo qualche raro barlume di vita e, con un distratto colpo di picca, vi ponevanofine.
Un grido disperato, più acuto degli altri, vagò fra i corpi, quasi cercando chi ancora vivesse. E, con un gran respiro, come da una polla d’acqua scura, qualcuno che credeva d’essere già morto riemerse dolorante alla coscienza.
Quale battaglia era - fu la prima cosa che si chiese - quella che aveva combattuto? L’opprimeva la feroce afa africana, alleata dei Mori, o la molle calura delle paludi batave, alle foci del Rhenus? Avrebbe voluto aprire gli occhi ma, come nei suoi incubi di bambino, per quanto si sforzasse, non ci riusciva; eppure, stranamente, nulla che assomigliasse al panico di allora sopraggiungeva.
Era qualcos’altro che continuava a tormentarlo: contro chi aveva combattuto, e dove?
Per quanto si lambiccasse il cervello, non riusciva a ricordarlo. Sapeva solo che questa era stata per lui l’ennesima battaglia. Sapeva che, in qualche modo, era stato ferito, ma che doveva fingersi morto, se non voleva che qualche vincitore vagabondo lo finisse. Perché, anche questo sapeva, quest’ultima battaglia era stata perduta, e la sconfitta gli alitava negli orecchi.
Altro non poteva fare che giacere, sfinito e dolorante, fra il groviglio inestricabile di tutti quei corpi.
Delle voci. Aspre come l’idioma dei barbari cui esso apparteneva. Eppure, benché avesse l’inspiegabile certezza di non essere anch’egli un barbaro, capiva benissimo quel che essi latravano. Ma, allora, se non era un barbaro, che cos’era?
«Fritigerno!» urlò qualcuno, poco distante.
Lo sbuffo di un cavallo accompagnò un grugnito di riposta. Erano vicinissimi. Se si fossero accorti che era ancora vivo non avrebbe avuto scampo. Immobile, continuava a ripetersi quel nome straniero, ma, nondimeno oscuramente familiare, cercando di afferrare le piume svolazzanti di un ricordo.
«Fritigerno, alcuni dei nostri sono tornati da Hadrianopolis. Dicono che, più che una città, è una fortezza. Mai visto mura così massicce! Abbatterle sarà un’impresa.» «Abbatterle?! Non sono in guerra con le pietre, io! Ce ne andremo da qui. Cercheremo bottino altrove.» «A Costantinopolis?»
«Idiota! E tu credi che Costantinopolis, la capitale dell’Impero d’Oriente, abbia mura meno spesse?! Andremo dalla parte opposta, a occidente, verso la Dacia, la Pannonia… e anche l’Italia, certo!»
«Come vuoi, Fritigerno. Andrò a dirlo ai capi guerrieri.»
«E poi, quante volte devo dirti di chiamarmi Giudice?! Io sono Fritigerno, il Giudice Supremo dei Goti!»
«Certo, certo… Anche tuo fratello Alavivo dice la stessa cosa, anche lui è il Giudice dei Goti! E, assieme a voi, altri sei o sette…»
«Già…» ruggì l’altro «Ma sono io, Fritigerno, che ho fatto a pezzi i Romani!»
Il brusco tintinnio dei finimenti rivelò, a lui che giaceva, lo scatto in avanti dei cavalli, incitati dalle urla dei barbari. Le stesse urla che aveva sentito in battaglia, quel giorno. Altrettanto laceranti e improvvisi come lampi, s’affacciarono i ricordi: i volti stanchi dei legionari romani - da ore schierati sotto l’afa agostana - che a fatica sostenevano i grandi scudi rotondi… le orde dei Goti, sterminate e frementi… le trattative estenuanti e il rincorrersi degli ambasciatori lungo la terra di nessuno… lo sguardo ansioso del Duca Vittore… la smorfia ostinata del Conte Sebastiano… e Flavio Valente Augusto, Imperatore Romano d’Oriente, sul suo cavallo, con il gracile corpo, rattrappito dalla gobba per cui i soldati lo schernivano, proteso a cercare la cavalleria romana, così lontana - troppo! - dalle schiere dei
pèdites. E poi, improvvise, le frecce, inopinatamente scagliate dalle truppe del centurione Bacuro… l’imprecazione di Vittore e la costernazione del suo pari Arinteo… il devastante contrattacco dei barbari… la rotta disperata dei Romani a cercar rifugio fra i campi… Ora ricordava: rivide se stesso affrontare con gli altri la carica arrembante dei Goti; risentì il grido metallico della propria spada spezzata dal colpo di un martello barbaro, e il cavallo, dilaniato ai garretti, che di schianto crollava sotto di lui, trascinandolo.
Sarebbe stato meglio non ricordare.
Supino, sentiva scorrere le lacrime lungo le tempie. Con un grugnito, lottando contro mille fitte di dolore - cautamente, lentamente - si alzò su di un gomito, sfregandosi, d’istinto, gli occhi con l’altro braccio.
E tornò a vedere: semplicemente, il sangue rappreso aveva ceduto alle lacrime, e aveva potuto riaprire le palpebre.
Non s’aspettava, però, quello che vide.
Come rovi, irti di picche, lance e spade, i corpi dei caduti s’intrecciavano inestricabilmente, coprendo tutta la vasta piana, in uno sterminato e dolente tappeto di cadaveri.
Perché mai quella vista lo straziava così? Era un veterano che conosceva la morte e lo sterminio, l’abitudine al sangue e al dolore gli era compagna da anni, ormai! Eppure, tanto ne soffriva vedendoli, che tutti quei morti sembrava gli fossero fratelli… Fratelli…
E, finalmente, senza più ostacoli, anche la sorgente del suo dolore emerse alla coscienza: quei morti, tutti quegli innumerevoli morti sulla piana di Hadrianopolis erano soldati romani. Come lui.
Ma, lui era vivo. E gli mancava ancora una tessera per ricomporre il mosaico di se stesso. La sua mano salì alla spallina della corazza, cercò fra le trecce e strinse la
tabella.
Respirò a fondo, prima di guardare.
C’era scritto:
Magnus Clemens Maximus - Dux Moesiae Secundae. Magno Clemente Massimo, Comandante Generale della Moesia Inferiore: questi erano il suo nome e il suo grado.
La caligine nella sua mente si dissolse, finalmente, e riprese a vivere.
Guardandosi cautamente intorno, vide solo poche, lontane figure a cavallo. Era il momento d’andarsene da lì.
Lentamente, prese a strisciare, come un fantasma, fuori da quell’immenso cimitero d’insepolti, quasi attendendosi che una mano spuntasse dal mucchio ad afferrarlo, per chiedergli conto della sua vita e della propria morte…

§


Lo stregone più potente… Tenebrosi rituali… Visioni affacciate sugli Inferi…

CAPITOLO XV

Provincia di Valentia, Diocesi di Britannia
Forte di Uxelodunum, Vallo d’Adriano


… Quasi senza accorgersene, il Duca si ritrovò nella propria angusta cella, seduto sul giaciglio, con la testa fra le mani. Taliesin lo sovrastava, fissandolo irosamente.
«Incosciente!» lo rimbrottò «Hai proprio dimenticato ogni cosa. Questa è la prima notte di novembre!» la sua tunica bianca si gonfiò nell’impeto con cui il druido allargò le braccia «È Samhain! La notte in cui tornano su questa terra gli spiriti inquieti dei morti… E» soggiunse, dopo un attimo, abbassando lo sguardo «in cui tenebrose deità chiedono sacrifici ai vivi.»
«Ma… quelli lasciati bruciare vivi…» Magno Massimo parlava a fatica. Taliesin continuò a tenere gli occhi bassi, sentendo su di sé lo sguardo stralunato del Duca. Poi, torcendosi le mani, si rialzò, voltandogli le spalle.
«Sacrifici… umani. Quei sacrifici che, più di tre secoli fa, spinsero Nerone ad ordinare lo sterminio dei miei confratelli.»
«Sacrifici umani?! E… a che scopo?»
Con un sospiro, il vecchio tornò a voltarsi verso Magno Massimo, questa volta guardandolo dritto negli occhi.
«Per impetrare il favore di forze ambigue ed oscure, e creare in quel luogo un centro di potere cui attingere… Pratiche abominevoli, ormai abbandonate da tempo, ma c'è ancora qualche anima perduta che…» Il druido scosse lentamente il capo, mentre la voce gli moriva in gola.
«E quel… quell'essere…» chiese l’altro, sbarrando gli occhi al ricordo.
«Era l'ombrato signore delle oscurità dei boschi. L’Uomo Nero. Il Cacciatore Selvaggio. I nostri avi celti lo chiamavano Cernunno. La sua crudeltà non ha confini e tu non conosci il rischio che hai corso! Ma, grazie alla Luce, sono arrivato in tempo.
«Era… il suo favore che Canutulachama cercava?»
Il druido sorrise amaramente.
«Solo un un miserabile apprendista… od un folle può immaginare di blandire Cernunno, la cui perfidia è pari solo al suo potere.»
«Ma… Ma…» balbettò confuso Magno Massimo. Taliesin gli si avvicinò nuovamente, con veemenza.
«Ma… Basta! Non mi è consentito dirti altro al riguardo. Ben diverso è il percorso cui devo indirizzarti, ed è arrivato il tempo che tu sappia! Non posso più lasciarti nel buio della tua inconsapevolezza… Mastica queste!» Poi, chinandosi su di lui, estrasse da una piega della candida tunica quella che sembrava semplice frutta secca e gliela porse, tenendola delicatamente nel palmo.
«Nocciole?!» esclamò incredulo il Duca.
Gli occhi grigi di Taliesin lampeggiarono.
«Sciocco! Ancora non hai imparato a distinguere ciò che ‘sembra’ da ciò che ‘è’. Esse sono nocciole nella misura in cui le vostre Insegne Imperiali sono la rozza effigie metallica di un uccello rapace. Questi» disse, con voce vibrante e profonda «sono i Semi della Conoscenza. Masticali! E quello che noi chiamiamo
awen ti aprirà gli occhi…»
«Aspetta, Taliesin! Ci sono troppe cose che non capisco. E poi, faccio dei sogni che…»
«Masticali.» ripeté l’altro «I Semi accenderanno la tua Luce, apriranno il tuo Occhio Interiore verso l’
Annwfn, il Non-Mondo. Non temere l’awen, Macsen!» insistette, con calore «Io ti sarò vicino. E capirai anche quelli che a te ‘sembrano’ sogni!»
Magno Massimo, incerto, prese un paio di Semi e, dopo averli soppesati fra le dita, se li portò alla bocca. Poi, masticandoli, chiuse gli occhi e si stese sul giaciglio.
Rilassò completamente le membra e inspirò profondamente. Un fetore nauseabondo gli mozzò il respiro.
Conosceva bene quel puzzo: sangue, visceri aperti e putrefazione. Esso regnava ovunque avesse infuriato la battaglia. Di scatto, spalancò gli occhi e si rizzò a sedere. Nella cella, aleggiava una caligine scura e udiva qualcuno lamentarsi. Aguzzò lo sguardo e vide che uno strano gruppo si torceva fra quella bruma malata: un essere gigantesco, un guerriero - il corpo e la corazza lordi di sangue, in mano una tozza spada scheggiata e gocciolante immondi liquami - premeva col piede ferrato un giogo che gravava sul collo di due uomini prostrati al suolo. Il colosso alzò lentamente il capo, armato da un elmo rostrato, e fissò il Duca, con grifagni occhi neri di ratto, infossati in un volto tatuato. Agghiacciato, Magno Massimo lo riconobbe: chi aveva di fronte, era il dio di ogni morte e desolazione, di ogni orrore e violenza. Quegli era Marte.
Ai suoi piedi, impedito dal giogo crudele, il più vecchio dei due uomini cercava di ghermire e azzannare l’altro accanto a lui, che, ritraendosi, piangeva e si disperava…


§


Un generale ed una Principessa… Due mondi lontani che s’incontrano… Un grande amore…

CAPITOLO XVI

Provincia di Britannia Prima, Diocesi di Britannia Segontium


… Un tardo pomeriggio, mentre, dal piazzale antistante alla
Porta Decumana di Segontium, quella che dava verso il mare, osservava i manovali all’opera sulla torre, vide la Principessa Elain uscire a cavallo dalla porta. Con un sorriso, le andò incontrò e notò subito tre piccole primule dal delicato color lavanda farle capolino sulla sommità della testa, dove i capelli erano raccolti a formare un’ardita coda di cavallo. Sentendosi scaldare il cuore, s’inchinò con allegra condiscendenza.
«Principessa Elain!»
«Duca
Macsen!» rispose lei, con una luce maliziosa negli occhi verdi «Mi chiedevo se potrei rapire il nostro generale ai suoi doveri militari. Almeno per una sera.»
«Rapiscimi, Elain!» replicò lui «E ti prometto che farò in modo che nessuno osi chiederti il mio riscatto.»
Con un gesto, Magno Massimo si fece portare un cavallo da uno dei soldati di guardia alla porta e si allontanò con lei lungo la strada romana…
Dopo meno di un miglio, Magno Massimo e la Principessa Elain lasciarono la strada lastricata, avviandosi verso un ruscello che scorreva tranquillo, lambito dai rami spogli di alcuni grandi salici piangenti. Scesi da cavallo, s’inoltrarono fra le grandi cortine brune, lasciando poi gli animali liberi di pascolare.
Dopo essersi seduti sotto un albero, lei sciolse con grazia i capelli tenendo fra le bianche dita affusolate le Primule che ricordavano il colore di certe aurore di montagna, quando il tempo è incerto.
«Conosci il significato recondito della Primula,
Macsen?» chiese, carezzando i piccoli petali.
«Ehm… Naturalmente no, Principessa.»
«Per qualcuno è la Primavera, dato che è il primo fiore a crescere spontaneamente alla fine dell’inverno, ma per altri è… il Primo Amore. È delicata, dai petali sottili ma elastici al tatto quasi come la pelle della mano di una fanciulla mai accarezzata…»
La ragazza sorrise fra sé, mentre Magno Massimo cominciava a trovare meno comodo il luogo dove era seduto.
«Mi ha fatto pensare a Midgma.» riprese poi lei, voltandosi a guardarlo.
Il Duca sbatté le palpebre, sorpreso da quest’uscita inaspettata. Mentre guardava la ragazza, attendendo che si spiegasse, si sorprese a chiedersi se si sentiva più sollevato o deluso.
«Stamattina, mentre mi acconciavo i capelli con queste Primule, e ricordando il loro significato, ho pensato che, forse, se mia cugina avesse avuto un innamorato non sarebbe così dura e intransigente… Non penserebbe solo a guerre e combattimenti e vendette…» la ragazza sospirò, volgendo lo sguardo verso il ruscello «Da bambine eravamo così unite… Che gioia quando le nostre famiglie si facevano visita! In quelle ore passate a giocare insieme, non avrei mai pensato che, crescendo, saremmo diventate così diverse… Anche se, adesso che ci penso,» disse dopo un attimo, cambiando tono «il suo gioco preferito era quello della ‘Principessa prigioniera del Drago, liberata dal prode Cavaliere’… e lei voleva sempre fare il Cavaliere!» concluse, stringendo le labbra con buffo disappunto.
«Ovvio!» ribatté, trattenendo il riso, Magno Massimo «E tu la Principessa. Ma… e il Drago? Chi lo faceva il Drago?»
«La governante. Povera Matilde! La ricordo ancora scappare a gambe levate, sollevandosi le gonne, con Midgma che la rincorreva… Perché la spada era finta, ma i fendenti che mia cugina le assestava erano veri!»
Tutt’e due scoppiarono in una risata. Improvvisamente, Elain posò delicatamente un dito sulle labbra di lui, facendo cenno con la testa verso la sponda opposta del rivo. In una macchia di cespugli di caprifoglio, uno splendido cervo maschio, dal pelo scuro come corteccia, li osservava, immobile e severo, mentre, fra le sue zampe, un giovane cerbiatto brucava l’erba, ignaro. Per alcuni istanti, il Duca ebbe la netta impressione che il cervo stesse fissandolo, dritto negli occhi, con intenzione. L’animale raschiò la terra con una zampa anteriore, scuotendo il capo coronato dal maestoso palco di corna. Poi, distolse lo sguardo e si allontanò oltre i flessuosi rami pendenti, fiero ed elegante, seguito dal cerbiatto che saltellava spensierato.
«Allora, potente generale, salverai la mia Britannia?» Magno Massimo trasalì alla domanda di Elain, ancora soggiogato dallo strano contatto con quell’animale regale e gli occhi ancora fissi verso il punto in cui era scomparso alla sua vista. Si voltò e, per un attimo, guardò la Principessa senza parlare.
«Elain,» disse, dopo un sospiro «se la Britannia vorrà davvero salvarsi, io cercherò di aiutarla, ma se prevarranno ancora quelle divisioni tribali che, per secoli, prima che arrivasse Roma a portarvi la pace e il Diritto, vi hanno tenuto in balia dei Saxones, degli Angli, dei Picti… be’, neanch’io potrò fare molto!»
Di slancio, ma delicatamente, Elain gli prese la mano.
«Non sarà facile, lo so! Se così non fosse, non avremmo dovuto accettare con sollievo il dominio di un esercito straniero… No, non fraintendermi,
Macsen!» la giovane, con un gesto delicato, smorzò sul nascere la replica del Duca «Se Caractaco, se Boudicca, avessero usato la stessa forza e la stessa tenacia che hanno usato contrastandovi invano, per avversare, invece, i barbari dal mare e dal nord, forse non avremmo avuto bisogno della dura pace di Roma.»
Magno Massimo volse lo sguardo verso il cielo, dove rosseggiavano ormai le luci del crepuscolo, mentre Elain continuava con voce ferma. «Se, invece di disputarsi, azzannandosi alla schiena come cani randagi attorno ad un osso, il trono di un Re Supremo che manca da tempo immemore in Britannia, i capi tribù avessero cercato di unirsi contro i nostri nemici secolari, Roma avrebbe trovato sulla propria strada la dignità di un grande popolo, capace di governarsi e proteggersi da solo!» La Principessa piegò le spalle, scuotendo la testa, mestamente «E, invece, chi vi combatteva trovava vostre alleate le tribù vicine. Tutto questo anche solo per il livore meschino causato da qualche pezzo di terra conteso o da qualche decina di capi di bestiame reclamata. E chi, in passato, chiedeva a gran voce per sé il trono di Re Supremo dell’Isola dei Potenti, correva carponi a leccare la mano dell’invasore romano, contro i propri fratelli.» Il Duca guardò con occhi nuovi quel profilo sottile, soffuso ora da una passione e da una forza che non avrebbe mai sospettato. «Elain, dovresti sapere che anche la nobile storia di Roma è costellata di inganni, e molti Romani, nei mille anni e più della nostra esistenza, hanno tradito la patria.»
La Principessa lo guardò, sorridendo appena, tristemente.
«Eppure, Roma è divenuta padrona del mondo,» replicò «e molti Romani vivranno per sempre nella gloria degli eroi immortali. Ma, forse, un giorno, anche la Britannia avrà un Re, così nobile e generoso che non sarà mai dimenticato… e sarà Re, per sempre.» Per la prima volta, in tutti quei mesi, Magno Massimo avvertì la vicinanza di Elain. Non sapeva come spiegare ciò che sentiva. Forse per quella luce nuova che aveva visto balenarle negli occhi, mentre parlava dell’amore deluso e dell’orgoglio per la propria patria, così simili a quelli che provava lui. Così simile anche quel dolore che le faceva vibrare le labbra. Quell’acuto dolore che egli provava ogni volta che vedeva un segno dell’irrefrenabile agonia di Roma. Magno Massimo le prese le mani fra le sue, esitante a guardarla negli occhi, e avvertì l’identica delicatezza della sua pelle e di quei petali di Primula. Non resistette, sentendo il calore del viso di lei avvicinarsi al suo. D’improvviso, trasalì e, allarmato, si guardò intorno.Una strana nebbia fluorescente e azzurrina aveva ammantato il crepuscolo che ombrava il ruscello e le spoglie chiome dolenti dei salici. Diede un sobbalzo quando udì, senza riuscire a capire da dove, strani bisbigli e l’eco di risatine femminili. Fra le scure cortine, formate dai rami curvi degli alberi, in alcuni punti, la bruma turchina s’addensava in strane volute che disegnavano e scomponevano quelle che sembravano piccole e leggiadre forme femminee, che, a loro volta, parevano rincorrersi e nascondersi giocosamente, per poi dissolversi di nuovo.
Magno Massimo, sempre più agitato, si voltò verso Elain, che lo guardò, sorridendo, per nulla impressionata.
«Che cosa temi, grande generale? Tutto ciò che non conosci, o non ricordi, ti appare una minaccia?»
Il Duca non fece in tempo a rispondere, una voce femminile, sibilante e riverberata, lo gelò.
«
Macsen… Macsen… Bentornato!» Una sagoma tremula e luccicante aveva preso forma accanto a loro. Sotto gli occhi spalancati di Magno Massimo, i suoi contorni si fecero sempre più nitidi, finché due iridi bianche lo guardarono, velate da un sorriso canzonatorio. Poi, l’apparizione parlò, e il suono di quella voce sembrava echeggiare lo sciabordio dell’acqua del ruscello fra le radici dei salici.
«E giunge, alata come un’aquila, la spada celata e possente di
Macsen… Grazie ad essa, noi vivremo ancora… e una regale Britannia nascerà.»
Il suono argentino dell’acqua che sgorga dalla fonte divenne una squillante risatina, a cui altre fecero eco da una sponda all’altra del rivo. In uno sfavillante turbinio, la forma fluttuante si dileguò fra i salici, inseguita, fra bisbigli e risate, da altre sagome luccicanti.
Magno Massimo rimase senza parole, assolutamente frastornato.
Elain gli si avvicinò, accarezzandogli il volto con dolcezza.
«Non ricordavi più le nostre piccole fate, le
bean-si? Da millenni esse popolano i nostri boschi e colline, anche se sono sempre più rare, ormai. Non le ricordi, allora, nei tuoi primi anni in Britannia, Macsen? In effetti,» aggiunse vivacemente, abbracciandosi le ginocchia «è vero che non godono di buona fama: c’è chi dice che siano davvero dispettose, quando non addirittura annunciatrici di un trapasso… ma per me queste sono voci messe in giro da folletti invidiosi! Certo, hanno il loro caratterino, ma se le sai prendere per il giusto verso, sono amiche deliziose.» concluse, ridendo felice, subito imitata da un’altra risata cristallina, lontana, fra le chiome brune dei salici…

§


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